La proiezione psicologica, una storia imbarazzante

proiezione psicologica
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La proiezione psicologica è un meccanismo di difesa che consinste nello spostare caratteristiche proprie sugli altri per allontanarsene il più possibile.

Prima individuata da Sigmund Freud e poi elaborata da Carl Gustav Jung, la proiezione è comune agli individui che non hanno imparato a conoscere loro stessi e il loro lato oscuro.

Come affermava il vecchio proverbio della pagliuzza e della trave nell’occhio, può infatti capitare che ciò che non viene elaborato o accettato in noi stessi diventi molto più visibile negli altri provocando fastidio o reazioni di rabbia.

Per mostrare esattamente questo meccanismo, voglio qui condividere una storia che mi riguarda e che per molto tempo ho considerato imbarazzante.

Proiezione psicologica al corso di motocicletta

Ero al corso di motocicletta.

In otto ci trovavamo nel parcheggio di un edificio dove avremmo sostenuto l’esame pratico per la patente A e tra di noi c’era un ragazzo mingherlino e silenzioso.

Aveva la schiena curva e il viso pieno di brufoli, portava gli occhiali e dei jeans larghi che sembrava non venissero lavati dai tempi del liceo.

Era goffo, talmente goffo che quando salì in sella alla sua moto perse subito il controllo e cadde per terra a rallentatore.

Mentre gli altri accorsero ad aiutarlo io mi sentivo ribollire dentro, c’era qualcosa in lui che mi dava sui nervi e la cosa si intensificò nel guardarlo tentare di sollevare la moto senza riuscire.

Nella mia testa gli urlavo contro frasi di rabbia come: Sfigato muoviti! Non vedi che tutti aspettano te? Cosa sei venuto a fare a farci perdere tempo? Perché non fai un favore a tutti e te ne vai? 

Ma non dissi nulla, tentai di non pensarci e continuai con la lezione di guida.

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Durante le varie prove che ci venivano assegnate tutti riuscivamo a restare in sella senza troppi intoppi… Eccetto lui. 

Continuava a fermarsi, a rallentare quando doveva accelerare, a far tremare il manubrio, a uscire fuori strada. Un vero imbranato.

Più la mia rabbia nei suoi confronti lievitava e più, a confronto, mi sentivo rincuorato di non essere come lui.

Io ero sicuramente più cool, più figo, più in gamba.

Io le moto le sapevo portare, non avevo bisogno che nessuno mi dicesse cosa fare, non avevo bisogno di migliorare.

O, per lo meno, era così che speravo che fosse.

La proiezione psicologica in atto

La fase di esercitazione durò più di dodici ore, che inclusero anche un secondo giro di prove l’indomani mattina, prima dell’esame vero e proprio.

I miei compagni di classe diventarono tutti un po’ più bravi con la pratica, ma il ragazzo mingherlino continuava a stare sulla sella dritto dritto come un manico di scopa.

Avrei scommesso che non avrebbe passato l’esame ed ero sicuro che sarebbe arrivato ultimo.

Poi iniziarono i test ufficiali.

C’erano nove prove, ognuna delle quali veniva valutata con punteggio da 1 a 10. Bisognava ottenere un punteggio minimo di 60 per passare.

Ogni prova consisteva in un aspetto preciso della guida su strada: curve a destra e a sinistra, rettilineo con cambio da seconda a terza, fermata con scalata da terza a prima e via dicendo.

Nel bel mezzo dell’esame, mentre ero ancora concentrato a prendermela (mentalmente) col ragazzo, non mi accorsi che iniziavo a perdere colpi.

Non riuscivo a rimanere dentro le linee, a mantenere il controllo della moto o a fermarmi prima del segnale di stop.

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Iniziai a innervosirmi.

E un dubbio angosciante mi fece sudare i palmi delle mani: e se non fossi capace di superare l’esame?

Arrivò la parte finale (che sbagliai) e quando anche l’ultimo partecipante terminò i suoi giri, ci chiesero di rientrare nell’edificio dove aspettammo l’arrivo dell’istruttore con la cartella dei risultati.

In un’atmosfera di silenzio e tensione chiamarono uno ad uno i nostri nomi e ci dissero il punteggio ottenuto nell’esame di teoria e in quello di pratica.

Quando finirono una cosa divenne chiara: mi ero piazzato ultimo della classe nella pratica, con un punteggio di 61 su 100.

E la cosa più imbarazzante fu che il ragazzo mingherlino, lo stesso che, ci avrei giurato, avrebbe dovuto fallire miseramente, ottenne un 72/100.

In poche parole, aveva fatto meglio di me.

Alla fine dei conti ero io il perdente del gruppo, un boccone estremamente amaro da ingoiare, ma grazie al quale imparai una delle lezioni più importanti della mia vita.

E la lezione è questa:

Quando proviamo fastidio, risentimento o odio nei confronti di qualcuno, è probabile che il sentimento non abbia nulla a che vedere con la persona in sé, ma con noi stessi.

È probabile insomma che si tratti di una proiezione mentale.

La proiezione, una scomoda verità

Arriviamo così alla morale della storia: quel ragazzo ero io.

Non fisicamente, ovvio, ma metaforicamente.

Era la parte di me a cui non è mai stato consentito di sbagliare, a cui non è mai stato dato il tempo di imparare

L’odio che ho sentito risuonare dentro non era nient’altro che una proiezione, il retaggio di un’emozione che avevo vissuto in passato e che si ripresentò nel presente quando venne stimolata da qualcuno che mi assomigliava in un modo che era difficile da accettare.

Avrei potuto continuare a credere che il ragazzo fosse oggettivamente un buono a nulla, che quel test non significava niente, ma a cosa sarebbe servito?

Il risultato parlava chiaro: ero io quello che aveva ancora molto da imparare, non lui.

Lui passò dal non saper portare una moto a ottenere la patente grazie alla pazienza e all’empatia degli insegnanti (pazienza ed empatia che non avevo avuto) .

Io, invece, pur credendo di essere al di sopra di tutti nel gruppo, persi l’occasione di migliorarmi, di crescere, di ammettere di non saper fare bene qualcosa.

La mia debolezza si travestì da arroganza e mi fece diventare, anche se solo per un giorno, e anche se solo nella mia mente, un bullo.

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La proiezione mentale accade perché è più facile prendersela con gli altri

Quanto è semplice evidenziare le mancanze altrui? Quanto è semplice notare le debolezze degli altri e ignorare le proprie?

Molto. Troppo.

Dopo il giorno dell’esame di motocicletta, tutte le volte in cui sento dell’odio o della rabbia montare dentro mi chiedo, da dove viene? Quale parte di me mi ricorda questa persona?

Ho mai fatto quello per cui sto giudicando l’altro?

E nella maggior parte dei casi in cui mi pongo quest’ultima domanda la risposta è Sì.

Un sì che riesce a smorzare l’impatto di emozioni altamente frustranti e negative, un sì che mi ricorda che tutti possono sbagliare, un sì che mi fa sentire più connesso con gli altri, un sì che mi rende più umile

Quando ripenso a quel ragazzo vorrei tornare indietro nel tempo e abbracciarlo, dirgli Tranquillo, non fa niente se sei caduto, riproviamoci insieme, neanch’io sono capace.

Avrei tanto voluto dirgli queste parole, e avrei tanto voluto che qualcuno le avesse dette a me.  

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